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Otto “condannati” per l’apocalisse causata dall’industria chimica Union Carbide a Bhopal, India. Otto condanne a una pena massima di… due anni. Reato: “morte per negligenza”. Anziché un più chiaro: “omicidio di massa”. E ci sono voluti 25 anni per arrivare a una sentenza come questa.
L’apocalisse arrivò come una grande nuvola bianca, nella notte fra il 2 e il 3 dicembre 1984. Dagli impianti chimici della Union Carbide  – un’azienda americana di stanza a Bhopal – si alzò un’enorme nube tossica a base di isocianato di metile, un pesticida che diventa terribilmente tossico per l’uomo se entra a contatto con l’acqua.
Vale la pena ricordare che cosa provocò quella “negligenza”.
Tra 8.000 e 10.000 morti secondo fonti indiane (più altri 15.000 morti negli anni successivi, secondo Amnesty International) per paralisi respiratoria fulminante e arresto cardiaco.
La notte della nube tossica fu l’inizio, non la fine.
Negli anni a seguire, vi furono anche 500.000 casi di persone affette da patologie varie per l’inquinamento di acqua, terra e aria.
Negli anni a seguire nacquero anche centinaia di bambini con gravissime malformazioni fisiche e danni cerebrali: i figli delle donne che erano incinte quando furono investite dalla nube tossica.
L’allora presidente della Union Carbide, Warren Anderson, non è fra gli uomini condannati ( tutti dipendenti indiani, nessun americano):  arrestato dopo il disastro, pagò una cauzione e uscì dal carcere, si diede alla fuga e tornò negli Usa, dove da allora vive in latitanza. La richiesta di estradizione avanzata dal governo indiano cadde nel vuoto.
Nel 1989 la Union Carbide concordò con il governo indiano un indennizzo di 470 milioni di dollari per il disastro, a patto di non essere più perseguibile legalmente. Ragion per cui, non è apparsa al processo. Del resto, la Union Carbide come tale non esiste più: oggi fa parte del colosso chimico americano Dow Chemical, che continua a operare in India e non si ritiene responsabile di ciò che fece la Carbide.
Ben pochi di quei 470 milioni di dollari andarono davvero nelle tasche dei sopravvissuti di Bhopal, che erano in gran parte abitanti delle bidonville adiacenti l’impianto industriale. Le associazioni dei parenti delle vittime non furono coinvolte nella trattativa per l’indennizzo.
Le falde acquifere della città di Bhopal sono tuttora inquinate e causano centinaia di casi di avvelenamento, più o meno grave, all’anno. Permangono tonnellate di rifuti tossici nei dintorni dell’impianto, che fu sigillato ma non venne mai decontaminato, così come non è mai stata decontaminata la città.
L’associazione International Campaign for Justice in Bhopal ha annunciato manifestazioni e digiuni di protesta e presenterà ricorso contro la sentenza. Il giudice indiano che l’ha pronunciata era al suo ultimo giorno di lavoro in quella sede.

Nella notte del più grande disastro industriale della Storia, i sistemi di sicurezza della Union Carbide erano disattivati. Per risparmiare sui costi di gestione.

P.S: Domattina, alle 10,30, parlerò di Bhopal a Rai News 24. A tutti coloro che vogliono saperne di più consiglio il libro di Dominique Lapierre e Javier Moro: «Mezzanotte e cinque a Bhopal»  (Mondadori).

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